Quando si parla di economia cicolare spesso è la retorica ad avere la meglio. Ma un modo di entrare nel concreto è quello di parlare di vuoto a rendere. Per farlo abbiamo coinvolto Pietro Ceciarini, assegnista di ricerca al Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali dell’Università di Bologna e fondatore della startup BackBo, nata dal suo progetto di tesi: “Progetto BackBO – Studio di fattibilità per la gestione dei rifiuti da imballaggi attraverso il sistema del vuoto a rendere all’interno della Zona Universitaria di Bologna.”
Ecoló: In Italia produciamo una quantità inimmaginabile di imballaggi. Il dato sulle bottiglie di plastica è da Guinness dei primati con 8 miliardi di bottiglie prodotte ogni anno. Come siamo arrivati fin qui?
Pietro Ceciarini: Il dato delle bottigliette di plastiche è terribile. In Italia siamo il 5° paese in Europa per salubrità della nostra acqua potabile da acquedotto (dietro a paesi prettamente montani come Austria e Svezia ad esempio) e, allo stesso tempo, siamo il 3° paese al mondo per consumo di acqua minerale in bottiglia, dopo Thailandia e Messico, che hanno problemi di potabilità e sicurezza dell’acqua da rubinetto. Siamo arrivati a questo punto perché negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, in pieno boom economico, è stato capito che si potevano fare i soldi con un bene di tutti, privatizzandolo. È stato creato un marketing per esaltare la salubrità dell’acqua in bottiglia che ha iniziato quindi ad essere commercializzata. La televisione, anche oggi, ci propone tantissima pubblicità di acqua minerale che ne esalta gli aspetti salutari, creando una cultura specifica, oltre all’abitudine ad un sapore diverso.
Ecoló: Vuoi dirci, brevemente, come funziona il meccanismo del “vuoto a rendere” e quali ingredienti rendono possibile che funzioni?
PC: Il vuoto a rendere è un meccanismo molto semplice, e per questo bellissimo. Si è sviluppato nel dopo guerra, anche in Italia, per motivi economici, le aziende infatti risparmiavano recuperando gli imballaggi, lavandoli e riutilizzandoli. Tutto questo fino alla scoperta dell’usa e getta. Di recente, alcuni paesi, come Germania, Svezia, Croazia e altri, lo hanno fatto diventare obbligo di legge, sia per gli imballaggi riutilizzabili che per quelli monouso. Per gli imballaggi riutilizzabili il meccanismo funziona grazie a una cauzione che il produttore applica sulla vendita del prodotto, ad esempio una bottiglia di birra, e che è presente in tutti i passaggi, dal distributore fino al consumatore finale e varia da pochi centesimi fino a massimo 1-2 euro. In questo modo il produttore si garantisce un minimo di budget per acquistare nuovi imballaggi nel caso non li riceva indietro tutti. Per riavere la cauzione è sufficiente restituire indietro l’imballaggio integro da parte del consumatore finale, del distributore e così via fino al produttore che può così recuperarlo e riutilizzarlo. Il vuoto a rendere è possibile anche per i prodotti monouso e, in questo caso, serve a garantire standard di riciclaggio più efficienti, andando a selezionare il rifiuto in modo più preciso coinvolgendo il consumatore che riceve un piccolo contributo, riportando indietro ad esempio una lattina vuota o un determinato tipo di bottiglietta di plastica.
Ecoló: Tutti noi abbiamo avuto esperienze positive con la gestione del vuoto a rendere, in alcuni paesi del nord Europa o in Alto Adige, e ci chiediamo sempre: perché nel resto d’Italia non c’è?
PC: Domanda molto interessante, che ci permette di far capire come siamo arrivati a questo. Credo dipenda da due aspetti, uno normativo e uno culturale. Siamo un paese infatti dove il senso civico non è così elevato e il vuoto a rendere presuppone comunque un impegno da parte di ognuno per il benessere collettivo. A livello normativo invece, con il Decreto Ronchi del 1998, anziché spingere sul riutilizzo degli imballaggi e dei rifiuti, è stato scelto di puntare prima di tutto sul riciclaggio con la creazione di consorzi appositi senza scopo di lucro, come il CONAI (Consorzio Nazionale Imballaggi). Questo non gestisce il vuoto degli imballaggi, ma i materiali di scarto conferiti dai comuni provenienti dalla raccolta differenziata. Le aziende che producono imballaggi partecipano attraverso un contributo all’origine del prodotto, versato al Conai per le spese di gestione dei rifiuti che dalla raccolta sul territorio passano ai Consorzi per il riciclo. Questo si è dimostrato un forte limite e un rallentamento alla possibilità di sviluppare un sistema di vuoto a rendere. Oltre a questo, in Italia, la stessa definizione normativa di rifiuto è piuttosto “sottile” creando spesso problemi e interpretazioni e, negli ultimi tempi, stiamo anche sempre più assistendo alla diversificazione delle bottiglie, come tratto distintivo da parte delle aziende, soprattutto di birra, al contrario della standardizzazione che si ha invece in altre parti di Europa e che aiuta il vuoto a rendere.
Nonostante tutto ciò, il vuoto a rendere era presente in Italia e in parte c’è ancora. Qualche anno fa, ad esempio, è stata lanciata una campagna in Sardegna, da parte della birra Ichnusa e, soprattutto nel sud Italia, esistono ancora realtà industriali che usano il sistema del vuoto a rendere come pratica quotidiana, la Peroni stessa nel suo stabilimento meridionale fa vuoto a rendere da anni, proprio perché ancora legato a un’economia di risparmio più che a un’economia di sfruttamento.
Ecoló: Quali sono i costi aggiuntivi (e su chi ricadono) e quali i risparmi di una filiera del vuoto a rendere e quindi qual è il bilancio economico complessivo di una operazione di questo tipo?
PC: Non credo che il sistema del vuoto a rendere porti costi aggiuntivi. La presenza di una cauzione è solo uno strumento per far funzionare il sistema permettendo il recupero dell’imballaggio. Dal punto di vista del consumatore quindi i dati di costo in più sono irrisori se non minori, dal momento che con la diffusione del sistema, dovrebbe affermarsi un minor costo nella gestione dei rifiuti (che potrebbe portare a uno sconto sulla Tari, ad esempio). Il bilancio economico complessivo non aumenta, anzi porta valore anche per le istituzioni, valutando non solo l’aspetto economico del sistema ma anche altri vantaggi in termini di sostenibilità, soprattutto in un’ottica di ciclo di vita e di impatto ambientale, economico e sociale, considerando anche la possibilità di fare risparmio da parte di persone meno abbienti che, in modo dignitoso, possono guadagnare sopperendo ai comportamenti poco virtuosi di altre persone.
Ecoló:Quando qualche mese fa si è iniziato a parlare di un’imposta sugli imballaggi di plastica è scoppiato un putiferio, malgrado si trattasse di un tentativo molto timido di arginare la sovrapproduzione di imballaggi nel nostro paese, quali sono gli ostacoli maggiori che oggi non permettono di proporre soluzioni efficaci come il vuoto a rendere?
PC: Già, la plastic tax era sicuramente un provvedimento importante. A mio avviso il problema di fondo è stato un po’ lo stesso avuto in passato: non aver integrato nel processo legislativo fin da subito le varie parti interessate, gli utenti finali, produttori, distributori, senza avere così un dialogo che permettesse di arrivare a una soluzione valida per tutti, condivisa e consensuale. Poi, come detto anche prima, il Decreto Ronchi ha creato un sistema molto rigido tra consorzi, comuni, aziende municipalizzate che rende difficile il cambiamento, anche per motivi culturali.
Ecoló: A che livello è più utile agire per sviluppare un progetto di vuoto a rendere? è possibile fare qualcosa a livello regionale?
PC: Con la mia esperienza e formazione ho sviluppato un approccio in ambito startup e innovazione usando metodi di lean startup e design thinking. Partirei quindi sempre dal piccolo, con un modello da testare e poi ingrandire e riprodurre, adattandolo al contesto in cui è calato. La realtà di Bologna, in cui lavoro, è diversa da un paesino della Sicilia o dalla realtà autonoma dell’Alto Adige. Non possiamo pretendere da subito che si possa espandere il vuoto a rendere alla dimensione nazionale. Anche per la logistica è più semplice partire da piccole realtà locali, come birrerie artigianali o piccole cantine con poche bottiglie.
A livello regionale, anche pensando alla Toscana, potrebbe essere interessante pensare a progetti di hub territoriali che fungano da centri di lavaggio e smistamento di questi imballaggi, in modo da ridurre i costi di trasporto e non dover avere il lavaggio in house.
Ecoló: Raccontaci il tuo progetto: in due parole, che cosa è BackBO?
PC: BackBO è nato proprio per essere un hub e un esperimento di vuoto a rendere in zona universitaria. Pian piano, nonostante tutti i problemi di burocrazia e normativa di cui abbiamo parlato, abbiamo mantenuto la missione e una visione coerente: distruggere il mondo dell’usa e getta a favore di una cultura verso un’economia circolare e sempre più riutilizzabile. Siamo un centro di economia circolare a Bologna, che è anche centro di innovazione sociale, grazie all’integrazione con il territorio e con la cittadinanza.
Ecoló: Pensi che questa esperienza possa essere replicata in altre università? Come associazione politica come potremmo spingere perché ciò avvenga?
PC: A livello universitario tutto è partito facendo una tesi all’interno di un progetto europeo più ampio che riguardava la rigenerazione della zona universitaria di Bologna (afflitta da problemi di devastazione e di degrado urbano) e che avrebbe potuto portare vantaggi anche dal punto di vista della sostenibilità. Come BackBO vorremmo crescere e cercare di sviluppare centri in altre città italiane, ma con un percorso di crescita dal basso, fungendo noi da facilitatori per aiutare a far nascere nuovi hub.
Un’associazione politica può essere uno strumento e un metodo importante per cercare di fare leva sulle istituzioni, in modo da coinvolgere dal punto di vista anche culturale e di comunicazione di possibili progetti di questo tipo, in modo da espandere attività di vuoto a rendere.
Ecoló: Oltre al vuoto a rendere, quali potrebbero essere soluzioni innovative da sviluppare in ottica di economia circolare sul territorio? anche in relazione al tuo lavoro di ricerca che stai portando avanti all’Università di Bologna.
PC: Noi con BackBO, all’interno dell’associazione, facciamo diverse attività. Abbiamo un hub che è anche un laboratorio di design per prototipare in ottica di economica circolare, con stampanti 3d e altri macchinari, sull’onda di Precious Plastic (community che ha reso possibile la costruzione di macchinari domestici per il riciclo della plastica). Questo potrebbe essere un’attività molto interessante, esportabile e replicabile, proprio perché avvicina tutti i cittadini a una modalità di economia circolare più partecipata, più attiva, più vicina. Quello che vorremmo diventare è un centro di ricerca sperimentale per l’economia circolare per fare diverse attività, non solo plastica, ma in futuro anche altro, riducendo quelli che sono i tempi delle università e avere più dinamismo rispetto alle istituzioni pubbliche. Poi è importante coinvolgere il più possibile le persone: se le persone cambiano, se la cultura cambia, le aziende e le istituzioni dovranno adattarsi e regolamentare le nuove esigenze del popolo.
Ecoló: Grazie mille della tua disponibilità!