Diventare parte attiva di un cambiamento che è già cominciato.
I termini più frequentemente associati alla parola “plastica” nelle ricerche Google sono espressioni quali ‘economia circolare’, ‘riuso’, ‘inquinamento’, ‘rifiuti’. Tutti segnali di un’attenzione crescente al problema e alle strategie necessarie a contrastarne la diffusione. Possiamo smettere di occuparci di plastica quindi? Non proprio, uno studio della Commissione europea ha mostrato come l’80% dei rifiuti marini sia composto da plastica, e come soltanto nel Mar Mediterraneo vengano sversate più di 570 tonnellate di plastica l’anno, con l’Italia che detiene il non invidiabile terzo posto al mondo fra i paesi più colpevoli.
Un sondaggio commissionato dal Consorzio Nazionale Imballaggi (CONAI) nel marzo 2019 proprio in Italia, del resto, riportava che sul campione intervistato, il 47% si dichiarava ‘fortemente preoccupato’ e un 39% ‘preoccupato’ per l’ambiente: la consapevolezza, pur con diversi gradienti c’è.
Parlare di plastica nel 2020 significa pertanto abbracciare una visione globale del problema, che vada a cogliere i nessi che legano l’inquinamento che questo materiale ha portato nel Pianeta a quella forma globale di produzione e di consumo che va sotto il nome di economia di mercato. Bisogna cioè uscire dall’idea della plastica come problema inserito in un compartimento stagno e pensarlo invece come parte integrante di un sistema molto più complesso, la cui soluzione può essere cercata solo all’interno di una visione d’insieme.
Fin dall’apparizione dei primi polimeri, a cavallo tra le due guerre, la plastica è diventata una componente essenziale e permanente della civiltà dei consumi del ventesimo e ventunesimo secolo. Quando ci si pone il problema di come risolvere il danno ambientale che ne deriva, occorre perciò partire da questo presupposto: la plastica è parte integrante di un processo produttivo che ha portato il genere umano a minare profondamente gli equilibri dell’ambiente in cui ha sempre vissuto, ingenerando dei processi a catena di cui stiamo vedendo solo le prime fasi.
Ci sono vari livelli di intervento di cui prendere coscienza per cercare di sovvertire questo status quo prima di arrivare a un punto di non ritorno
Il primo, più immediato, è quello di lavorare sugli effetti che la produzione eccessiva di plastica e dei suoi derivati ha nella nostra vita comune e nell’ambiente in cui viviamo. La crescente consapevolezza nell’opinione pubblica ha di fatto portato a una offerta qualitativamente diversa in tanti campi del consumo: pensiamo ai nascenti negozi ‘alla spina’ che, bypassando l’uso massiccio di imballaggi della grande distribuzione, permettono ai clienti di fare delle scelte ecosostenibili sia in termini di contenitori non più usa e getta, sia soprattutto in merito alla qualità dei prodotti venduti, spesso ottenuti sintetizzando sostanze naturali o a basso impatto ambientale. Il consumo, appunto, risulta essere la leva attualmente vincente sulla quale generare un moto di opinione, una consapevolezza che si possa tradurre in impegno e conseguentemente in un potere che il singolo può esercitare sul mercato.
Ma far leva sulla sensibilità e le scelte di chi acquista non è sufficiente, dare incentivi a chi investe in una economia sempre più circolare, disincentivare l’acquisto di prodotti monouso, e al tempo stesso investire in filiere legate al territorio, cercando il più possibile di avvicinarsi al celebre “chilometro zero”, dovrebbe rappresentare un traguardo condiviso, ambizioso eppure raggiungibile.
Esperienze virtuose insegnano che per uscire da un consumo prettamente lineare e passare dunque a un concetto di economia circolare esistono strategie efficaci: l’attenzione all’acquisto di prodotti alimentari a filiera corta va di pari passo a una lotta contro l’obsolescenza programmatica degli apparecchi elettrici ed elettronici. Si deve pretendere una life extension da parte delle aziende produttrici insieme a una maggiore diffusione del cosiddetto design modulare, dove determinati componenti siano intercambiabili fra diversi brand rendendoli più facilmente riparabili. Dal 2021 in Europa una legge imporrà ai produttori di rendere disponibili per un periodo dai 7 ai 10 anni i pezzi di ricambio degli elettrodomestici, aumentandone il ciclo vitale e nel contempo creando lavoro per il settore delle riparazioni. Una buona pratica che coniuga attenzione per l’ambiente e crea valore.
Un altro tema fortemente impattante è quello della moda: un settore che da solo è responsabile di circa il 9% della produzione globale di CO2 e oramai indirizzato su prodotti sempre più fast, da utilizzare una stagione e poi buttare via, composti da fibre sintetiche (che finiscono a ogni lavaggio nella rete idrica e poi nei mari) altamente inquinanti. Qui il contesto culturale da combattere è più difficile: se infatti sta diventando di moda scegliere prodotti bio per la propria alimentazione o per i materiali di uso quotidiano in casa, scegliere invece capi rigenerati o addirittura di seconda mano trova delle fortissime resistenze nelle scelte di acquisto.
Diverso, forse perché di percezione più immediata, è l’atteggiamento verso gli imballaggi: in questo caso il consumatore finale si vede forse parte più attiva nel processo di riciclo e presta sicuramente molto più attenzione, ed è un bene perché, attualmente, il 64% della plastica prodotta è destinata proprio al packaging: una vita brevissima per la funzione per la quale viene prodotta e un fine vita letteralmente sine die, smaltita negli inceneritori o addirittura abbandonata nell’ambiente, pertanto perennemente in circolo.
Infatti una delle ulteriori problematiche che emerge esaminando i dati è che il 90% della plastica finora prodotta non è stata riciclata, sia perché all’interno del ‘contenitore’ plastica trovano posto materie estremamente diverse tra di loro, con differenti leggi chimiche e strutturali, sia perché la produzione di plastica è talmente ipertrofica che anche gli impianti di riciclo e riuso presenti non potrebbero mai gestirla. Il surplus di scarto finisce inevitabilmente in discarica, o peggio direttamente nell’ambiente.
Tecnicamente, la plastica è eterna: come una novella araba fenice più si polverizza e si disintegra più riesce a entrare nei cicli vitali della vita sul pianeta, fino a diventare parte integrante di quelli alimentari, dal plancton ai pesci fino ovviamente alla nostra specie. Un problema oramai così esteso e pervasivo da non avere risparmiato nessuna area del pianeta: frammenti di polimeri si sono trovati non solo ad entrambi i poli, ma perfino in aree che si credevano incontaminate come la Fossa delle Marianne.
Negli ultimi anni sono state sviluppate numerose soluzioni alternative, utilizzando quelle che spesso vengono definite ‘bioplastiche’, composti derivati da materiali naturali che si degradano poi nell’ambiente.
Purtroppo, questo tipo di soluzioni non sono immuni da criticità, come accade anche per i cosiddetti bio-diesel la diffusione di alternative di origina vegetale comporta sì una minore estrazione di idrocarburi ma contemporaneamente è responsabile di deforestazione, con tutti gli effetti nefasti sull’ecosistema che ne conseguono. Allo stesso modo destinare terreni alla produzione di composti ‘naturali’ finalizzati alla produzione industriale di bioplastiche comporta lo stesso tipo di problemi.
Secondo le Nazioni Unite l’umanità ogni anno produce 5 trilioni di sacchetti di plastica mono-uso (5 milioni di milioni!). La domanda fondamentale da porsi è perché l’umanità produce questa insostenibile quantità di plastica? La plastica ha assurto il ruolo di regina delle materie prodotte per una delle leggi più semplici e spietate di questo sistema produttivo: perché è più economica.
E’ economica la sua produzione mentre è assolutamente non conveniente l’impatto che essa produce nell’ambiente e di cui le amministrazioni locali e nazionali debbono poi farsi carico per mitigarne gli effetti sul territorio. Soltanto l’Europa ha speso nel periodo 2014-2020 5,5 miliardi di euro per il miglioramento della gestione dei rifiuti. Il problema è che mentre le scelte di produzione e distribuzione delle buste di plastica sono regolate dalla convenienza del mercato i costi sociali e ambientali vengono invece caricati interamente sulla spalla delle comunità. Una logica chiaramente insostenibile.
La buona notizia è la consapevolezza che sta maturando nell’opinione pubblica.
Il successo delle giornate di raccolta della plastica promosse da varie associazioni sul territorio – tra cui Plastic Free Italia o Thrashed Abetone raccontata su questo sito il mese scorso – dimostrano che il bisogno di un cambio di rotta è sentito e percepito come necessario: da piccoli comuni a grandi realtà metropolitane molte persone si mobilitano per provare a ripulire una determinata porzione del territorio in cui vivono, e lo fanno felici di diventare parte attiva di un cambiamento.
E’ un cambio di paradigma non da poco, se invece di percepirci come consumatori, utilizzatori finali, soggetti passivi in balia di dinamiche che non comprendiamo né maneggiamo, diventiamo invece soggetti attivi, responsabilmente coinvolti in azioni corali e condivise, i cui effetti possiamo letteralmente toccare con mano.
Ruolo essenziale in questo cambio di prospettiva deve essere riconosciuto al sistema scolastico: soltanto con una capillare, strutturata campagna di informazione e sensibilizzazione si può insegnare alle ragazze e ai ragazzi a diventare cittadini consapevoli e informati, parte necessaria di quel cambiamento tanto auspicato quanto non più rimandabile.
Tutto questo ovviamente deve andare di pari passo con un cambio di rotta profondo e radicale a livello di istituzioni locali e nazionali, le sole che possano e debbano avere l’autorità per vigilare affinché le imprese, le corporations, i grandi gruppi industriali introducano dei processi davvero ecosostenibili e non delle fittizie operazioni di green washing, volte solo a inquinare anche il piano informativo e comunicativo. Penso ad esempio alla campagna pubblicitaria di Eni, che si accredita come attore attento all’ambiente quando invece è responsabile di scelte completamente opposte.
Una corretta informazione – anche istituzionale – è alla base di questo processo ‘dall’alto’: pretendere che le aziende certifichino con un water o un carbon footprint i propri prodotti come oramai siamo abituati a vedere per le etichette dell’efficienza energetica è compito di chi deve regolare i processi tra produttore e consumatore.
Ed è muovendosi contemporaneamente su questi due binari – l’azione concreta dei singoli per mitigare gli effetti della diffusione e le scelte politiche a livello locale e globale per lavorare invece sulle cause della sua sovrapproduzione – che bisogna muoversi, singolarmente e collettivamente.
Attraverso la lotta alla plastica e alla filosofia che la sostiene (la società dell’usa e getta, deresponsabilizzata e quasi atomizzata in tanti singoli individui slegati e spesso in conflitto fra di loro) si deve mettere in discussione un intero sistema di produzione e di consumo.
E c’è davvero un crescente e percepito bisogno nelle persone di vedere rappresentata questa istanza di cambiamento anche a livello istituzionale. Il successo anche mediatico di movimenti quali Fridays For Future, soprattutto nei giovani, è il marcatore di questo bisogno. Quella contro la plastica è una delle grandi battaglie che noi tutti siamo chiamati a sostenere, per sentirci ed essere parte attiva di un cambiamento che è già cominciato.